di Campanelli Marisa, Maria Teresa Medi, Giovanna Monterubiano
Introduzione
Con il presente contributo le autrici intendono promuovere uno spazio di riflessione e di condivisione della propria esperienza clinica sull’utilizzo del setting multiplo: prassi conosciuta da molti terapeuti ma che solo da poco tempo sta guadagnando attenzione e credito anche a livello epistemologico e scientifico.
La possibilità di lavorare terapeuticamente utilizzando più setting può realizzarsi solo a seguito di una attenta valutazione dei differenti livelli di significato che tale indicazione comporta sia per i pazienti, sia per i terapeuti coinvolti. Specialmente in ambito clinico privato, dove spesso i terapeuti lavorano isolatamente o intrattengono relazioni principalmente con colleghi di formazione comune è meno praticata la cultura della condivisione, necessaria per mettere in atto un intervento complesso. Parliamo in modo particolare della eventualità di portare avanti contemporaneamente diversi contesti terapeutici e non di prevedere percorsi, per così dire, a tappe che implicano il passaggio da una terapia ad un’altra e da un terapeuta ad un altro, sicuramente più praticati. L’allargamento dell’intervento di cura, garantisce un sostegno sicuramente più consistente, ma per risultare efficace deve prevedere una relazione di reciproca fiducia che nasce principalmente dall’esperienza professionale condivisa dei terapeuti, spesso le controindicazioni al trattamento multiplo non riguardano esclusivamente la particolare situazione clinica, ma la effettiva praticabilità dell’intervento. La condizione che si è creata fra le terapeute coinvolte nel caso qui di seguito descritto è dovuta alla comune appartenenza ad un gruppo di supervisione, condotto ad Ancona da Alfredo Canevaro, il gruppo è composto da psicoterapeuti provenienti da diverse formazioni e orientamenti, da diversa esperienza e area di interesse d’applicazione clinica, e svolge l’attività di ricerca e di clinica in ambito professionale privato nell’area geografica della regione Marche.
La presa in carico del paziente, effettuata da ciascun membro del gruppo, può prevedere un progetto terapeutico che tenga conto, sulla base della richiesta specifica del paziente e della valutazione della situazione, dell’impegno simultaneo di più setting e di diversi terapeuti. Nel corso del processo terapeutico sono previste sedute di raccordo dei diversi setting paralleli attraverso sedute di consulenza che possono vedere co-protagonisti e compresenti i terapeuti coinvolti e i diversi sottosistemi in gioco. Una volta al mese, inoltre, è prevista una seduta di supervisione per tutti i clinici appartenenti al gruppo dove vengono discussi i processi terapeutici condivisi.
Tale scelta di prassi clinica si spiega alla luce della convinzione profonda di A. Canevaro, che intorno alla sua pluriennale esperienza il gruppo ha fatto propria, e cioè che il paziente seguito da una rete di “operatori” che non comunicano efficacemente tra loro, più frequentemente di altri pazienti, presenterà una percentuale elevata di drop-out e tale fenomeno si spiegherebbe con l’effetto-funzione che gli acting-out otterrebbero: quello cioè che i diversi professionisti possano finalmente ridurre la frammentazione, parlandosi ed integrando i rispettivi interventi. Lontano dall’intenzione delle autrici voler proporre, in apertura, una dissertazione sul difficile tema del fallimento terapeutico, appare evidente altresì ricordare che indagando nella storia della Terapia Familiare ci accorgiamo che la sua nascita è da attribuirsi principalmente a necessità di ordine terapeutico stabilite da pazienti (psicotici, borderline e bambini) che non miglioravano inseriti nel setting tradizionale della psicoterapia individuale praticata all’epoca, allo stesso modo osserviamo che l’origine della prassi della psicoterapia dei setting multipli affonda le sue radici nel terreno conosciuto del rischio del fallimento terapeutico con pazienti “difficili”, nel tentativo di migliorare i risultati e prevenire gli abbandoni. Alla luce di quanto affermato sopra appare evidente che: “I fallimenti terapeutici sono la voce poco ascoltata dei pazienti, che solo attraverso questa nuova frustrazione ci stanno indicando il cammino” (A. Canevaro 1995).
Uno sguardo alla letteratura e alla clinica
L’etica verso i pazienti e la priorità clinica, dunque, sollecitano la sperimentazione di nuove strategie terapeutiche; tale sperimentazione inaugura nuovi osservatori i quali a loro volta inaugurano nuove concettualizzazioni che diventano strumenti indispensabili nella pratica clinica. Il cerchio si chiude e si rinnova. Questo andamento non lineare della ricerca costituisce una sorta di modello epistemico molto vicino all’esperienza soggettiva di ciascuno di noi, costretti, come siamo, dalla vita, a modificare di continuo i nostri paradigmi e le nostre certezze, sospinti da fatti ed eventi che di colpo ci riconfigurano l’esperienza secondo differenti parametri. L’andamento della ricerca in psicoterapia, oltre a seguire un percorso non lineare, sembrerebbe seguire una sorta di “logica di opportunità” centrata sul paziente, per la quale si tende ad includere, nei setting tradizionali, sempre più elementi della vita reale del paziente: la sua famiglia, le sue appartenenze a gruppi e a istituzioni, come elementi fondanti la sua mente e aspetti da prendere in considerazione nell’intervento terapeutico.
La prassi di associare più contesti terapeutici nel trattamento di pazienti gravi, come già detto, è molto comune, e molto elevato è il consenso del mondo degli “addetti ai lavori” soprattutto all’interno dei servizi pubblici: psichiatri, psicologi, magistrati, assistenti sociali, pedagogisti, educatori, mediatori culturali, infermieri, etc. persino l’autorevole American Psychiatric Association (APA) l’ha annoverato tra i profili di intervento d’elezione al trattamento del DBP (APA 2001).
Il lavoro d’équipe e con il territorio, gli interventi multidisciplinari e a setting multipli hanno tradizionalmente informato la pratica clinica dei modelli familiari, sistemico-relazionali (Asen, Schuff, 2006; Eisler et. al., 2003; Selvini Palazzoli et al., 1975). Una delle idee cardine che corrobora il pensiero sistemico è la possibilità di operare su più livelli di contesto (Pearce, Cronen, 1985) in quanto le cornici di riferimento in cui l’uomo costruisce la propria identità, le strutture che connettono (Bateson, 1972), fanno di esso un sistema vivente che costruisce significati entro una “mente contestuale”. In Finlandia, a tal proposito, Alanen (1993, 1998) ha realizzato un programma di trattamento per pazienti con gravi disturbi schizofrenici, all’interno dei servizi pubblici, che si basa sull’integrazione globale delle diverse modalità di trattamento psicoterapico e riabilitativo, con un costante coinvolgimento della rete familiare anche grazie a specifici interventi di terapia familiare. Guardando più vicino a noi, il Nuovo Centro per lo Studio della Famiglia di Milano, propone interventi con setting multipli paralleli con particolare efficacia per disturbi del comportamento alimentare (1998) e ancor più articolatamente pratica l’integrazione di diversi setting terapeutici, nell’alveo del più allargato setting di Comunità Terapeutica (Cirillo et al. 2002), per pazienti con psicosi e disturbi di personalità anche in co-morbilità con patologie da dipendenza da sostanze.
In area psicoanalitica, i modelli di intervento che utilizzano setting multipli, sono quelli della Northgate Clinic: unità terapeutica residenziale per adolescenti con gravi disturbi di personalità e psicosi, operante a Londra dagli anni Ottanta. La Terapia Multi-Setting Psicoanalitica del gruppo di Otto Kernberg (1984, 2003): basata sull’attenzione al rispetto o alla violazione dei confini, dei limiti, delle regole e dei ruoli (Swenson e Sanderson, 1997). Essa ha lo scopo di far emergere la conflittualità e il transfer, che risulterà multiplo e frammentato, con la finalità di agevolare le integrazioni delle rappresentazioni scisse di sé e dell’altro e di internalizzare il controllo degli impulsi attraverso l’interpretazione nel setting individuale di quanto accade negli altri contesti. La Terapia Individuale Parallela di Wine e Carter (2000): consiste in una doppia psicoterapia individuale che riprodurrebbe la scena familiare con i due genitori che si occupano, oltre che dei bisogni di accudimento e di esplorazione dei sentimenti negativi del loro bambino, anche di supportarsi a vicenda (a differenza delle due precedenti esperienze cliniche sopra riportate la possibilità della terapia gemella viene presentata solo nel caso che la prima sia bloccata o in pericolo). Il Trattamento Ospedaliero Multi-Setting Dinamicamente Orientato di Bateman e Fonagy (2001, 2004) che più degli altri modelli sottolinea come l’elemento fondamentale e in sé terapeutico sia l’integrazione dei molteplici interventi effettuati (individuali e gruppali).
In area Gruppoanalitica, D’Elia (1998) riferendosi particolarmente al contesto di Comunità Terapeutica, sostiene che i setting multipli agirebbero in quanto contesti culturali facilitatori poiché attivano nel paziente una gruppalità interna a matrice dinamica e terapeutica. Il gruppo degli operatori (terapeuti, staff operativo, familiari, altri pazienti di un gruppo, etc.) costituirebbe dunque quell’organizzatore rappresentazionale capace di agire sulle strutture profonde della personalità, sui “collanti” con i quali il paziente ha fino ad allora ha costruito il proprio modo di essere nel mondo, con sé e con gli altri. L’autore non intende solo le strutture dei setting (tipologie, regole, numero di terapeuti coinvolti, etc..), ma anche e soprattutto i processi che quei setting attivano nella mente del paziente.
In ambito cognitivo-comportamentale sono stati formalizzati modelli di setting multipli per ridurre i drop-out e migliorare l’efficacia terapeutica nelle patologie borderline e dissociative: la Terapia Dialettico-Comportamentale di Marsha Linehan (1993), che coniuga due setting terapeutici condotti da terapeuti diversi ognuno con funzioni e obiettivi specifici: la psicoterapia individuale, preposta alla validazione della vita affettiva del paziente e la psicoterapia di gruppo psicoeducativa, orientata all’insegnamento del funzionamento delle emozioni e all’apprendimento delle abilità cognitivo-comportamentali connesse. La Terapia Multi-professionale Integrata, recentemente proposta all’attenzione di clinici e teorici, nata dall’esperienza del gruppo coordinato da Liotti (2005), suggerisce delle chiare linee guida necessarie per muoversi nell’attuazione di questi interventi: 1) terapeuti diversi per setting diversi; 2) alto livello di fiducia e collaborazione tra i terapeuti; 3) necessità di un linguaggio comune capace di superare i diversi orientamenti teorici d’appartenenza dei terapeuti; 4) presenza, regolarità e frequenza degli scambi di informazioni tra i terapeuti di cui i pazienti devono essere informati anticipatamente; 5) il perseguire l’obiettivo implicito, oltre quello desiderato dal paziente che pone la richiesta, quello cioè di sviluppare le tre aree maggiormente lese dalla disorganizzazione (regolazione emotiva, integrazione degli stati mentali, metacognizione). L’autore e i suoi collaboratori, espongono un’ipotesi teorica seducente e attendibile, basata sulla teoria dell’attaccamento, del perché il paziente “grave” ottiene giovamento dalla relazione complessa e contemporanea con molteplici terapeuti in molteplici contesti. Tale ipotesi coniuga le recenti affermazioni teoriche in merito alla psicopatologia dei disturbi dissociativi,che attribuiscono al paziente “difficile” una storia di attaccamento disorganizzato, con la complessità della relazione fra i vari contesti terapeutici e con tutti i suoi attori. La complessità dei setting potrebbe costituire una solida piattaforma per armonizzare il nucleo relazionale dei disturbi di cui soffrono i pazienti difficili e parallelamente prevenire e/o modificare alcune conseguenze dell’attaccamento disorganizzato. Riducendo l’inefficacia o addirittura l’insostenibilità della relazione terapeutica sia per il paziente che per il terapeuta e conseguentemente facendo diminuire i drop-out. I fattori terapeutici specifici dei Trattamento Multiprofessionale Integrato vengono dagli autori (Liotti,2005) così elencati: modulazione dell’attivazione del sistema motivazionale dell’attaccamento, protezione della relazione terapeutica, maggior competenza nella metacognizione, sicurezza del terapeuta. Non vengono altresì taciute le situazioni in cui l’intervento a setting multiplo va consigliato con cautela o risulta non opportuno.
Il caso clinico
Il caso che qui verrà riportato presenta un quadro clinico complesso, una ragazza di 22anni che chiameremo Roberta (R.) viene inviata in psicoterapia a seguito di un ricovero per un tentativo di suicidio. La terapeuta cognitivista a cui è stato fatto l’invio riscontrava, durante gli incontri individuali, la necessità di allargare il trattamento alla famiglia dal momento che l’ansia per il T.S. di R. coinvolgeva tutti creando reazioni molto diverse fra i due genitori e un clima di angoscia generalizzato che aveva bisogno di trovare un luogo in cui potesse essere accolto e collegato ai comportamenti della pz. La madre, in maniera particolare, metteva in atto molteplici strategie per entrare dentro la terapia della figlia, telefonate continue alla terapeuta e richieste di aiuto ogni volta che accompagnava la figlia in terapia. Per garantire la continuità della terapia di R. e contemporaneamente dare voce alle richieste e ai bisogni della famiglia è stato proposto dal terapeuta individuale di affiancare al proprio intervento un trattamento familiare congiunto.
La terapia individuale
R., studentessa universitaria, ha chiesto un intervento di psicoterapia su invito del suo psichiatra ,in seguito ad un ricovero per un tentativo di suicidio. La ragazza ha ingerito un notevole quantitativo di farmaci dopo che il suo ragazzo, che frequentava da due anni, aveva deciso di lasciarla. R. appare ai primi incontri molto depressa: lo sguardo basso, la voce fioca con la quale più volte ripeteva: ”E’ per me terribile questo senso di vuoto che avverto, non so più chi sono, mi sembra che niente abbia più senso”. Dall’anamnesi non risultano altri momenti di crisi importanti nella sua vita: “Però mi sono sempre sentita più fragile rispetto agli altri fin da bambina. Mamma mi ha sempre protetta da tutto. L’unica cosa importante era che io fossi brava a scuola e questa è una cosa che io ho sempre fatto… tranne adesso che non riesco nemmeno a presentarmi di fronte ad un professore..”. Fin dalle prime sedute appare chiara la difficoltà di R. di differenziarsi dalla mamma, con la quale non ha mai litigato “come posso litigare con lei visto che la pensiamo quasi sempre allo stesso modo? Per fortuna siamo così legate… cosi può sfogarsi con me quando mio padre e mio fratello la fanno arrabbiare”. La ragazza vive con la mamma insegnante, il padre perito chimico e il fratello maggiore che lavora saltuariamente e che viene descritto da lei come un ragazzo che perde facilmente il controllo e che spesso diventa aggressivo in famiglia. La terapeuta condivide con la paziente la necessità di lavorare, in primo luogo, al fine di risolvere lo stato depressivo: “ho sempre voglia di dormire e quando sono sveglia mi sento apatica e senza energia”. In seguito, non appena il tono dell’umore si fosse elevato, sarebbe stato affrontato il panico che le impediva di svolgere gli esami all’università e di allontanarsi da casa per le vacanze. Viene avviato con la ragazza un lavoro di auto osservazione delle situazioni problematiche al fine di agevolare il processo di ridefinizione interna delle problematiche presentate. Appare subito chiaro come Roberta abbia difficoltà a riconoscere non solo i propri stati emotivi ma anche i propri pensieri: non esiste confine tra sé e gli altri, gli altri le danno continuamente informazioni su di sé per cui lei è ipersensibile a qualsiasi manifestazione che le viene dall’esterno, che viene letta immediatamente come segnale di disconferma personale e come possibile preludio di un allontanamento da lei. Tale locus of control esterno la fa sentire in balia del giudizio degli altri e contemporaneamente, quando l’altro viene a mancare, le fa sperimentare sensazioni di annullamento, di vuoto tale da non sentire quasi la consistenza del suo corpo. Allo scopo di rendere le emozioni più articolate a livello di framing (Guidano 1987) è stata utilizzata sin dalle prime sedute la tecnica della moviola, applicata alla ricostruzione delle situazioni di disagio più recenti. Via via che R. aumenta la consapevolezza sul suo modo di funzionare i sintomi diminuiscono. Tuttavia la complessa situazione familiare della ragazza la distrae spesso dai compiti di auto osservazione sia a casa che in seduta, durante la quale, nonostante la terapeuta la inviti a concentrarsi su di sé, si perde a raccontare episodi di conflitti avvenuti tra i suoi genitori o tra i genitori e il fratello. Inoltre risulta più evidente nel corso degli incontri il fatto che la ragazza si allei sempre di più con la madre, colpevolizzando il padre per i disagi presenti in famiglia e verso di lui R. prova molta aggressività. E’ questo atteggiamento che induce la terapeuta a consultarsi con una collega sistemico relazionale, con la quale aveva già avviato percorsi di integrazione tra il modello cognitivista e l’approccio relazionale. Viene così deciso di affiancare, parallelamente alle sedute individuali con R., delle sedute con la terapeuta relazionale. Lo scopo è che la collega si faccia carico di tutta la famiglia e, in particolare, della coppia coniugale, sulla quale Roberta sembra esercitare una sorveglianza continua proprio attraverso i suoi sintomi. Togliendo alla ragazza la responsabilità dei suoi genitori, l’ipotesi è che si potrebbe concentrare di più su ciò che sente e arrivare a spiegarsi meglio questo suo sentire, oltre al fatto che sia più libera di esperire il mondo esterno. Quando la ragazza viene messa al corrente di tale decisione, la terapeuta percepisce immediatamente una reazione di sollievo. Con la collega è esplicitata e condivisa la necessità di tenere separati i contenuti sui quali R. lavorerà nei rispettivi setting oltre all’impegno di mantenere costantemente il contatto al fine di essere il più possibile in sintonia sui contenuti da restituire alla paziente. Già dopo poche sedute la ragazza racconta episodi di disagio non riferiti solo a fatti accaduti in famiglia e ciò le permette di ridefinire in termini interni le proprie problematiche emotive. Inoltre, via via che il lavoro di doppio setting procede, risulta evidente come sia agevolato il processo di ampliamento delle capacità metacognitive della paziente, oltre che di mentalizzazione; per lei diventa sempre più possibile rappresentarsi la mente degli altri e quindi soffermarsi a comprendere come gli altri si muovano secondo scopi e obiettivi personali, che poco hanno a che fare con lei e con il suo comportamento. Alla luce di tale ottica è stato possibile ricostruire la modalità di scompenso: la perdita del fidanzato aveva rappresentato una grave invalidazione in termini di valore personale e, contemporaneamente, aveva lasciato un vuoto che non le consentiva più di “definirsi” in alcun modo. La terapia si è conclusa nel momento in cui, attraverso la sua narrazione, R. appariva capace di articolare la propria esperienza emotiva, in modo tale da ottenere una modulazione delle oscillazioni emotive perturbanti, in grado di assimilarsi sempre più nel proprio senso di continuità personale.
La terapia familiare
Quando la famiglia di R. si presenta al primo incontro con la terapeuta relazionale (T2) quello che subito emerge è la distanza fra la diade madre-figlia e il padre. Continui sono gli attacchi di R. rivolti al padre e tanta la rabbia del padre verso i comportamenti autolesionisti di R. Il signor L. si dichiara anche contrario all’uso dei farmaci e della psicoterapia, ma si mostra anche molto spaventato per i rischi che i T.S. di R. possano prima o poi avere esito. La sua rabbia verso la figlia, fortemente giudicata dalla moglie, viene ridefinita da (T2) come paura, difficile da esprimere direttamente e da mostrare, perché ritenuta capace di innescare i comportamenti di R. Il padre viene così accolto nella terapia non come una persona aggressiva e insensibile alla sofferenza della propria figlia, ma come una persona spaventata che richiama R. a far uso della sua “volontà”, piuttosto che di altro, ritenendo veri solo i comportamenti congrui della figlia e scongiurando così i pericoli a cui lei si espone. In realtà R., a fronte di un forte ritiro in casa, fatto di lunghe ore di sonno, ogni tanto si desta dal suo letargo, affollato da pensieri suicidari e da angosce, uscendo per assistere ad alcune manifestazioni sportive e per scrivere articoli sulla locale squadra di pallacanestro, lì diventa capace di intrattenere relazioni con allenatori, giocatori e amici e poi come una cenerentola scompare dalla scena. La necessità riscontrata fin da subito di non considerare L. (il padre)un mostro ha permesso l’avvio del trattamento familiare e ha comportato, nelle successive sedute, la necessità di approfondire il senso di quegli scontri continui tra padre e figlia e della relazione di R. con la madre. L’obiettivo terapeutico si è focalizzato sul riequilibrio delle vicinanze e della distanze fra madre, padre e figlia. A questo proposito significativo è stato l’ingresso in casa di un cagnolino bastardo che R. voleva portare via dal canile municipale e che inizialmente il padre non voleva prendere. La famiglia ha portato la questione in terapia dove padre e figlia sono giunti ad un accordo sull’impegno che quest’ultima avrebbe dovuto mettere nella cura del cane, una volta preso in casa. L. ha allora acconsentito ed è andato con la figlia a prendere il cucciolo al canile. L’ingresso del cane in casa ha costretto R. ad alzarsi tutte le mattine per la passeggiata e ha creato un punto di unione con il padre (rompendo la proibizione materna dell’incontro con il padre) tanto che lui stesso tutte le sere usciva per portarlo fuori e si affezionava sempre di più al cucciolo, mostrando così la sua capacità di prendersi cura di qualcuno con molta gioia di R. Quando la tensione fra padre e figlia è rientrata è emersa la depressione materna, la sua insoddisfazione per la relazione coniugale e l’abitudine di rivolgersi ad esorcisti e guaritori di ogni genere sia per le sue pene sia per la situazione della figlia, tutte pratiche che R. accettava passivamente, ma che temeva fortemente. Il tema della coppia genitoriale diventava centrale ogni volta che R. non creava emergenze(nel corso del trattamento ci sono stati due crisi importanti e l’ultima, verificatasi durante le ferie estive, ha reso necessario il ricorso ad un ricovero di alcuni giorni). Quando R. si sentiva rassicurata si ritornava a parlare della distanza coniugale e della rabbia di D. verso il marito. La paziente, accanto alla terapeuta relazionale, ha ascoltato i propri genitori parlare di lei e delle loro difficoltà a pensarsi coppia (non uscivano mai insieme per non lasciare sola la figlia e ognuno nel tempo libero faceva riferimento alla propria famiglia d’origine). R., pur non avendo accettato l’indicazione di t2 di separarsi dalla terapia per permettere ai genitori di continuare in un percorso di coppia, a casa ha ceduto il controllo sulla relazione dei genitori iniziando ad essere meno presente e a reinvestire il suo tempo e le sue energie nello studio e nella propria vita di relazione, d’altro canto i genitori piano piano hanno ripreso ad uscire senza di lei fidandosi anche di lasciarla sola in casa. Durante le sedute familiari molte volte R. ha parlato della propria vita sentimentale e riportato i temi trattati nella sua terapia individuale, la necessità di tenere distinti i due luoghi, quello individuale e quello familiare, non è stata imposta a R., che nel tempo è riuscita da sola a differenziarli, ma ha portato le due terapeute ad intrattenere un contatto costante che è stato di forte aiuto per R. abituata lei a “regolare” le relazioni.
Considerazioni conclusive
Gli anni di conoscenza comune e di discussione sul rispettivo agire professionale e sulla specificità del proprio modello teorico di riferimento hanno permesso e permettono alle terapeute, da diverso tempo, di viversi come risorse sia per se stesse, sia per i pazienti. Sono state parecchie le situazioni in cui collaborano intervenendo in momenti differenti nelle terapie, in particolare in quelle terapie che ad un certo punto possono aver bisogno di cambiare setting, ad esempio una terapia individuale che si “trasforma” in una terapia di coppia, una terapia familiare che prepara un invio per una terapia individuale o di coppia ecc. La contemporaneità piuttosto che la sequenzialità comporta una presa in carico congiunta che risponde a più esigenze: quella del potenziamento del sistema terapeutico nelle situazioni gravi, come nel disturbo bordeline, e quella di permettere al sistema familiare e agli stessi pazienti di lavorare contemporaneamente e con meno rischi sul fronte interpersonale e intrapsichico.
Concludendo, pur trovandoci davanti alla messe di contributi teorici e di sforzi empirici provenienti da ogni angolo del mondo della psicoterapia, si deve accettare il limite, ancora attuale, della mancanza di una teoria complessa e unitaria, validata scientificamente attraverso ricerche controllate, che spieghi il funzionamento e se, e come, i trattamenti con setting multipli influiscano nella cura. Alcuni tentativi sono già in corso in Italia (R. Framba et al., 2003). Si comprende comunque come tali limiti siano tra gli altri da attribuire all’ingente mole di lavoro e di costi da sostenere per implementare e controllare scientificamente ricerche e studi in merito all’efficacia, alle indicazioni e alle modalità attuative.
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